"IL METODO CASUISTICO NELL’ETICA APPLICATA"

Annali di studi religiosi 12 (2011) 277-288


Nella filosofia morale è divenuto dominante l’approccio dell’etica applicata. Tale indirizzo di pensiero tratta temi che interes­sano àmbiti specialistici, coinvolgono competenze specifiche e interpellano in primo luogo le diverse etiche professionali e i rispettivi codici. La sua pre­senza va ormai aldilà della ricerca negli àmbiti accademici: in numerose occa­sioni l’etica applicata è chiamata a fornire indica­zioni e a contribuire a prendere decisio­ni su problemi diversi, spesso assai spe­cifici, all'interno di una varietà di comi­tati o commissioni (J.KEENAN 1996).
La preoccupazione morale fa ritorno in forma di urgenze cariche di poste in gioco gravi e implicanti valori fondamentali. Si è qui lontano dai casi di coscienza classici, analizzati in vista della preparazione dei confessori. Si tratta di far fronte  a problemi urgenti, con dina­miche interdisciplinari caratterizzate da un forte impatto pubblico, in una società in rapida evoluzione e in un contesto pluralistico, che spesso  vede contrapporsi vi­sioni ideali e concezioni religiose profon­damente diverse. dove i riferimenti durevoli si annebbiano e, quando persistono, lasciano indecisi quanto all’obbligo di seguirli incondizionatamente.
Il paradosso della nostra situazione è che da un lato la corretta soluzione di questi casi  carichi di conseguenze esigerebbe coscienze ben formate, certe dei propri principi, in grado di trovare una soluzione con un rischio calcolato e limitato, ma dall’altro queste condizioni sono poco soddisfatte. In questo contesto così sfavorevole si deve imparare a formulare un giudizio etico con urgenza e scoprire le vie attraverso cui si può e si deve prendere una decisione arrischiata in un contesto sovente di emergenza.
Inoltre il caso di coscienza assume una portata morale fondamentale, perché colui che decide impegna più che se stesso e prende posizione per altri, come succede in società altamente interdipendenti. La metodologia casistica, ponendosi sul piano sociale e politico, dove si situano i casi di coscienza connessi ai poteri istituzionali, enumera le eventualità offerte in una situazione data e fa soppesare ad ogni passo ciò che è in gioco nella scelta, piuttosto che preferire la scelta di un’esigenza astratta, vera in sé ma unilaterale.
Infine la casistica, ripresa nel contesto dell’  “etica applicata”, sottolinea fortemente la ne­cessità che il filosofo morale o “eticista”, come talora è og­gi qualificato l'esperto di etica applicata, si lasci istruire dallo scienziato; più in generale si lasci istruire da ogni sog­getto praticamente impegnato nella questione etica via via considerata. L'etica applicata è per sua natura un discorso interdisciplinare. L'interdisciplinarità non esclude, ma anzi  esige, la definizione specialistica della competenza etica. Tale competenza è concepita come competenza formale e  “metodologistica”; essa riguarda non gli apprezzamenti materiali di bene e di male, ma le procedure mediante le quali quegli apprezzamenti vengono di fatto prodotti. In tal senso l'eticista ha una competenza specifica in fatto di «ragionamento morale»; tale competenza è messa al servizio della ricerca di una intesa tra coloro che, praticamente impegnati nella soluzione di problemi morali, sembrano in prima battuta separati da giudizi valoriali opposti. Le ultime assunzioni di valore, da cui procede l'apprezzamento concreto, sono considerate dai fautori dell'etica applica­ta come non deducibili argomentativamente.
In questo contesto la  casistica viene ripresa come un metodo di ragionamento etico: il giudizio di nuovi casi viene formulato attraverso il ragionamento analogicio partendo da casi concreti che servono da modello per la soluzione di situazioni diverse, che appaiono riconducibili ad essi. Questi casi molte volte sono desunti dalla prassi quotidiana, qualora appaiano sintomatici per una problematica comune.
Ci chiediamo innanzitutto se questo tipo di approccio casuistico tenda ad una concezione solo funzionale della ricerca morale (1.), e se i casi possano essere isolati dal loro contesto narrativo: l’azione morale  implica più che lo sviluppo del ragionamento etico (2.). Neila discussione dei casi è in questione il bene morale e la configurazione della persona come soggetto morale (3.).

1. Una concezione strumentale della ricerca morale?

Nell’opera di S.E.Toulmin Il metodo casuistico provvede un metodo alternativo  di giudizio morale rispetto a quello che cerca di valutare le situazioni applicando ad esse principi generali (S.E.TOULMIN 1988). Toulmin enuncia, con molta chiarezza, una posi­zione sui limiti del ricorso all'argomentazione razionale nell’etica applicata largamente condivisa da coloro che operano sul campo. E spiega che la sua esperienza di lavoro nei «comitati etici» lo ha portato a constatare, con meraviglia, che «i commissari erano in grado di raggiun­gere un accordo nel fare raccomandazioni su questioni etiche di grande complessità e delicatezza». L'accordo tra commissari era possibile proprio in dipendenza di quello che era l'obiettivo previsto nella loro agenda di lavoro: «ovvero la stretta concentrazione su tipi specifici di casi problematici. Di fronte a "casi dif­ficili" essi indagavano  quali particolari conflitti di inte­ressi o di pretese erano esemplificati in questi casi, e abi­tualmente poi finivano con il bilanciare queste pretese in modi molto simili. Solo quando i vari membri di una commissione passavano a spiegare le loro "ragioni" parti­colari per ottenere un consenso generale essi comincia­vano a incamminarsi seriamente su strade divergenti. Infatti a quel punto i commissari, che provenivano da diversi contesti culturali o differenti fedi, giustificavano le loro posizioni facendo appello a concezioni generali e a princípi astratti che differivano molto piú profondamente che le loro opinioni su questioni particolari. Invece di "dedurre" le loro opinioni su casi particolari da principi generali che potevano dare forza e convinzione a quelle particolari opinioni, essi mostravano una certezza molto maggiore sui casi particolari di quanta ne avessero mai raggiunta su questioni generali» (S.E.TOULMIN 1986). Secondo Toulmin, da questa constatazione il filosofo morale può estrarre una determinazione metodologica di ordine generale. Determinazione che Lecaldano interpreta in questi termini: l'uso del ragionamento in morale va esteso fino a reperire le condi­zioni che permettono un accordo nella soluzione di par­ticolari casi etici da parte di un ben determinato gruppo di «esperti». Muoversi in questo contesto, conclude Lecaldano, esclude il ricorso al ragionamento in morale per tentare di realiz­zare un consenso generale sui principi o per fornire una giustificazione di principio sui singoli casi. Bisogna cioè “liberarsi dall'inattuale compito di impegnarsi in controversie di ordine metafisico”(E.LECALDANO 1988), Il ragionamento in etica va quindi utilizzato, secondo Lecaldano, fino a quando esso consente di realizzare un equilibrio, provvisorio, tra le esigenze in conflitto realmente presenti nel singolo caso in esame.
Ci sembra sospetta la relazione tra teoria etica formale e interessi morali pratici nell’etica applicata di questi autori. Si porta  avanti una concezione strumentale della ricerca morale come interessata primariamente ad identificare specifici modi di deliberazione morale adatti per una soluzione quasi tecnica dei casi intesi come dilemmi morali (problem-solving): si tratta di un’esplicita visione pragmatista e procedurale degli usi della ragione morale.
In secondo luogo la considerazione  dei casi come dilemmi  riposa su fraintendimenti seri delle loro cause e sorgenti sociali. Il problema che può essere risolto dall’etica applicata diventa un problema tecnico più che un problema morale.
Infine l’etica si trasforma in un’etica di applicazione alle questioni tali quali sono già  poste nello spazio sociale secondo le logiche  dominanti: “Si applica al vivere bene in un contesto predeterminato senza rimettere in questione il contesto dato, l’ordine stabilito, la produzione sociale. Si sottrae l’ordine globale ad ogni mozione di responsabilità e dunque gli si nega la sua contingenza”(M.MAESSCHAICK 1991) .
Il ragionamento morale non può che assumere dei processi già formulati o servire a dare una legittimità a posteriori agli orientamenti presi. La bioetica per es. non avrà altre ambizioni che di cercare di aggiustare a posteriori i rapporti dell’uomo con la tecnologia senza mettere in questione la direzione dello sviluppo delle tecnologie e il loro impatto antropologico e culturale.
Se il ragionamento morale sembra consistere quasi esclusivamente nel saper risolvere i dilemmi etici con cui sono confrontati i professionisti e i responsabili dell’impresa, ne consegue uno spiazzamento della questione etica  che appare più attenta all’efficacia delle decisioni che alle discussioni, giudicate superflue, sul funzionamento della normatività o sui fondamenti dell’azione. Le teorie morali sarebbero troppo astratte e non in grado di contribuire ai dibattiti morali. E soprattutto conflittuali e incapaci di trovare un accordo.
Non possiamo dedurre dal fatto che ci siano prospettive di valore rivali che una sia moralmente buona quanto l’altra.  Così il fatto che non ci sia nessun processo di deliberazione morale neutrale rispetto ai valori non significa che non ci siano criteri su cui  possiamo essere largamente d’accordo, come per es. nel giudicare le azioni dei nazisti.
L’uso del modello casistico da parte dell’etica applicata tende a separare nell’esperienza morale il teorico  dal valutativo, ridotto spesso ad una serie di semplici prescrizioni comportamentali, e a trattare le procedure del ragionamento etico come se fossero in qualche modo isolate dai più larghi interessi sociali. In  questo modo si collocano male le reali difficoltà e la complessità della riflessione pratica.

2. I casi e il loro contesto narrativo

Nella visione di Toulmin i casi spesso sono pensati nella forma  di dilemmi. Dilemma significa una scelta forzata tra due alternative inaccettabili. La difficoltà è che nel porre i casi come dilemmi, le persone trattano i problemi morali come se fossero dilemmi e li rappresentano come conflitti tra principi opposti: si richiede solo la valutazione delle scelte e la comparazione dei casi.
Nella pratica le opzioni sono raramente limitate a due e i problemi moralmente significativi quasi mai si accompagnano a possibili risposte specificate.  Di più è richiesto per affrontare i problemi morali: si deve progettare che cosa fare. Diversamente il soggetto, che inventa corsi di azioni,  rimane un  po’ dimenticato.  S. Hampshire osserva che le abilità di giudicare sono parte di ciò che una persona, che cerca di rispondere ad un problema morale, deve esercitare, poiché sono usate nella valutazione delle risposte ad una situazione. Comunque, giudicare alternative offerte non mostra come inventare alternative. Ci sono aspetti nelle deliberazioni dell’agente che vanno oltre la giustificazione (S. HAMPSHIRE 1989).
I casi vanno intesi come scenari aperti (open-ended). A differenza dei casi intesi come dilemmi morali (problem-solving), vanno interpretati dalla prospettiva di un agente in una situazione che pone problemi morali e chiama all’azione. Nell’esigere la formulazione di risposte e nel fornire l’informazione che è necessaria, tali scenari stimolano la creatività del soggetto di fronte ai problemi morali della vita reale. In tale comprensione i casi “problem solvine” diventano un momento dello sviluppo morale e utilmente chiarificano gli standards etici e le loro applicazioni  in modo che la discussione può beneficiare dall’onesto disaccordo per arrivare a soluzioni e modi di approccio che sono accettabili in termini di considerazioni etiche diverse.
Per cogliere la differenza tra questi due tipi di casi consideriamo questo esempio. Supponiamo che tu, dipendente dell’impresa automobilistica in questione, sospetti che la temperatura fredda comprometta il funzionamento di certi freni e quindi la sicurezza dei  veicoli su cui saranno applicati. Che cosa dovresti fare?
La descrizione aperta (open-ended) dà una descrizione della situazione che mostra alcune incertezze ed esige una risposta. Essa è in contrasto con la descrizione “problem solving”: “Devi informare i media di un problema di sicurezza ed essere licenziato o oggetto di rappresaglia? O dovresti dire nulla e mantenere il tuo posto di lavoro?”. Qui la situazione è presentata senza ambiguità e richiede che tu valuti solo due risposte offerte.
Anche le descrizioni aperte possono presentare problemi morali non ambigui, ma le persone che devono decidere che cosa fare spesso trovano ambiguità nella loro situazione. C’è bisogno di risposte che si mostrino prudenti e giuste ad ognuno, comunque le incertezze siano risolte.  A questo fine diventano preziosi i compiti del pensiero critico: essi includono l’attenta raccolta e organizzazione di fatti rilevanti, il guardarsi da giudizi tendenziosi, scoprire nascosti assunti, chiarificare concetti chiave, comparare i precedenti casi con quelli attuali, trattare giustamente ed efficacemente con il disaccordo e tentare di dare priorità ai valori in conflitto.
Tuttavia l’azione morale implica più che che lo sviluppo dei giudizio e del ragionamento morale. È in questione la sensibilità morale, il carattere e la motivazione. Si pongono questi interrogativi: come gli agenti vengono a percepire le situazioni nelle quali sono immersi? Come una situazione specifica viene ad avere un particolare carattere per un particolare agente morale? Non si può prescindere dal formulare un caso che rifletta la situazione dal punto di vista del soggetto che deve prendere una decisione in un contesto ambiguo.
Critico verso l’etica applicata, McIntyre arguisce che l’etica è un aspetto della vita delle persone che si sviluppa in comunità particolari piuttosto che un corpo di procedure astratte e razionali con applicazioni sui casi particolari. Secondo MacIntyre regole e valori morali sono sempre  appresi nell’applicazione a particolari circostanze sociali (A. MCINTYRE 1988). L’etica e i campi  particolari come la bioetica, l’etica professionale….stanno in continuità e differiscono solo nella generalità delle loro conclusioni. 
  MacIntyre ha osservato che la categoria fondamentale in etica non è l’azione ma l’azione intelleggibile, la quale richiede un contesto narrativo. In essa si sviluppa e si dispiega il carattere. L’identità e l’autocomprensione di una persona, e quindi la sua integrità morale, è convogliata nella sua storia. Si tratta di un tipo di ragionamento morale  basato sul racconto. Le cose e gli eventi derivano significato dall’essere posti dentro una storia e un contesto costante di interazione significativa. Su questa linea M. Nussbaum sottolinea l’importanza della letteratura per lo sviluppo della valutazione etica dei casi concreti e pone la questione se la letteratura possa essere considerata una speciale forma di filosofia morale (M.NUSSBAUM 1996).
   Si tratta di un modo di pensare che integra l’esperienza con i casi in modo diverso però dall’etica applicata. Nell’approccio del pensiero narrativo lo sviluppo di una persona come soggetto morale capace di prendere le sue responsabilità non è determinato da atti e situazioni singole isolate, ma da un processo in cui il soggetto si configura come persona e in cui vengono integrati bilanciamenti e ponderazioni di esigenze etiche diverse e in tensione. La persona designa un’unità narrativa basata su un’apertura al trascendente, sulla capacità dell’uomo di aprirsi spontaneamente all’esteriorità dell’altro come prossimo, e di scoprirla come una vocazione. Nel processo di sviluppo della persona come unità narrativa le norme e le attese personali non sono staccate, come avviene nel modello casistico dell’etica applicata,  dal loro contesto concreto di racconto in cui appaiono e a partire dal quale le persone sono chiamate ad agire analogicamente nella loro propria situazione professionale o privata. Senza il loro contesto narrativo le norme morali non sono che astrazioni. Per es il comandamento dell’amore non si può comprendere senza il racconto del buon samaritano. L’amore non figura come un principio astratto, ma come un’esigenza che appare in un contesto narrativo (J.VERSTRAETEN 2003). Nel­l'indicazione di storie esemplari, cui col­legare la specificità dei casi concreti (ed eventualmente nella dialettica tra di es­si), si esprime l'elaborazione etica: la ricerca del riferimento etico più ap­propriato alla situazione particolare è es­senziale all'elaborazione della norma per il caso in questione.

3. Congedo  del bene morale?

Proprio la tensione e il confronto tra i diversi casi nella loro particolarità fà apparire la necessità di rapportarli al loro contesto narrativo.
Sottolineando l’inserzione storica e comunitaria di ogni esistenza umana, si smaschera l’illusione di un’etica applicata che vorrebbe fare astrazione dalle tradizioni e rimettersi alla sola immanenza delle regole “razionali” che reggono i diversi settori della vita. Si smaschera l’illusione che consiste nel credere che in materia di etica ci sia un’oggettività “scientifica” e che si possa determinare una gerarchia di valori totalmente indipendente dalle tradizioni e dai costumi. Questi elementi culturali  rappresentano “il mondo etico” (Hegel) che  forma l'orizzonte vivente e conflittuale a partire dal quale si prendono le decisioni quotidiane.
  Tutto questo insieme storico-culturale che quali­fichiamo come «etica», cioè le regole di comportamento ricevute in un momento dato e già strut­turate in modi di agire, deve a  sua volta rapportarsi ad un insieme di riferi­menti che lo costituiscono in quanto morale. Per quanto sia essenziale, il livello etico è insufficiente, se non è commisurato a ciò che deve essere, se non è confrontato con ciò che chiameremo la morale propriamente detta. La conformità ai costumi, alla deontologia, al diritto circoscrive un segmento im­portante della pratica; ma chi agisce deve sempre, nel medesimo tempo in cui si conforma a ciò che si fa e si deve fare in rapporto alle obbligazioni sociali, interrogarsi sulla fondatezza delle prescrizioni ricevute (G.MANZONE 2011).
L'etica richiama un'istanza di giudizio supe­riore: si deve moralmente fare quel che conviene socialmente (giu­ridicamente) fare? Ma ancora, un attore morale si impegna perso­nalmente nella sua decisione: deve potere legittimarla davanti alla sua coscienza e alle convinzioni che la sostengono. Deve quindi giudicare il suo atto con il metro dell'ideale al quale aderi­sce. Ovvero, egli si riferisce ad una legge più universale delle regole sociali ricevute, al bene morale stesso: tramite l’atto della libertà l’uomo riconosce e  consente a tale bene, che, manifestato dalle forme pratiche del rapporto interumano pure sta al di là delle medesime forme. Tramite le forme del costume, le situazioni pratiche di scelta, nelle quali l'uomo viene a trovarsi nella vita quotidiana, dischiudono, o rispet­tivamente dovrebbero dischiudere, alla sua coscienza l'evidenza di ciò che appare degno, e che come tale si impone  alla sua libertà.
La percezione di questa evidenza del bene permette di criticare ogni etica applicata quando riduce i problemi morali a questioni di etica sociale, in cui è in gioco non il bene ma solo ciò che è convenuto dagli umani. Non si possono comprendere per es. i casi complessi con cui il management si confronta, se non si pone la questione del significato del lavoro o dell’impresa come luogo dell’azione umana.
Il pensiero teologico esplicita l'evidenza di quel bene propria­mente morale che le forme oggettive della vita sociale ( ethos) sempre hanno il compito di propiziare presso la coscienza delle persone, compito che i fenomeni di de­strutturazione del costume rendono proporzio­nalmente più arduo. È in gioco quel bene per il quale l'uomo può e deve spendersi senza calcoli e senza rispar­mio. riferendo se stesso non a delle norme astratte da applicare ma ad una comunità di interpretazioni e a delle tradizioni viventi incarnate nelle pratiche concrete (G.ANGELINI  2006).
Il discorso teologico è quello che si raccomanda al consenso attraverso la sua attitudine a mo­strare le buone possibilità pratiche obiettivamente iscritte nelle situazioni particolari dei vari settori dell'esperienza quotidiana. SI tratta di quella anticipazione del significato del bene che il costume offre alla libertà e che è condizione ineludibile dello sviluppo morale della persona, e in definitiva della verità dell’uomo in gioco nella discussione dei casi concreti.
 La teologia non cerca  di imporre un’etica particolare apportando delle risposte già fatte a dei dilemmi morali, ma testimonia la tensione delle decisioni morali particolari, in quel determinato caso, verso il bene che si dà come un promessa, tensione che è il punto di partenza della configurazione della persona come soggetto morale. Secondo Verstraeten tale  configurazione  è il punto debole dell’etica applicata (J.VERSTRAETEN  2003 ).
 L’esperienza morale tocca soprattutto la questione della configurazione della  vita buona e non riguarda  solo i casi concreti da risolvere. Il divenire soggetto non è mai il confronto solitario con una verità puramente soggettiva ed un rapporto solo funzionale con gli altri individui, ma si gioca nella convivenza promettente ed esigente dei soggetti in ricerca di un senso comune del vero e del giusto.  Il momento intersoggettivo dell’etica non si limita alla dimensione procedurale o comunicativa, perché in esso ne va sempre della ricerca di sé e della ricerca  della verità che ci costituisce e ci confronta.
L’attuale pluralismo delle diverse culture e il venir meno di un’adesione ad una morale condivisa sembrano imporre di limitarsi a qualche regola proce­durale, che permetta l'accordo su qualche principio fondamentale, senza assolutamente cercare di fondare questi princìpi su una “na­tura umana”, una metafisica o una filosofia della storia. Si deve quindi dare congedo all'idea di verità e alla ricerca di un bene che escluda un male, e limitarsi a rego­lare lo spazio minimale della coesistenza tra le diversità, senza giudicare la loro verità ultima.
 Ci domandiamo però se si può sfuggire all’arbitrio delle decisioni prudenziali relative ad un contesto particolare. La messa in parentesi degli interrogativi sul contenuto sostanziale dell’etica non conduce a riportare il giudizio morale ad una sorta di compromesso senza un vero criterio morale? Il rischio non è di circoscrivere la questione morale al suo ambiente immediato, di consacrare il particolare e il contingente  a detrimento dell’orizzonte universale che orienta la riflessione morale?
Non si dà una modalità d'intendere la conoscenza del particolare, che è parimenti frutto di un'esperienza vissuta, ma che  ciononostante  non esclude e in qualche misura richiede di attingere in modo non estrinseco a un sapere universale? Non è forse questa la modalità di un sapere pratico sia del particolare che dell'univer­sale, una sapienza pratica di tipo aristotelico capace di bilanciare la complessità delle situazioni mantenendo coerente l’ intenzione del bene morale?
 Si pone quindi la questione della coerenza dell’agire umano, che si dispiega in modo simultaneo nelle diverse sfere dell’esistenza. Nella bioetica la questione emerge nella difficoltà di integrare gli aspetti dell’etica politica, economica e sociale,  i cui principi non sono derivati dalla bioetica stessa. Così nell’etica degli affari diventa difficile situare l’agire dell’impresa nell’orizzonte più largo della giustizia sociale.
Nella discussione dei casi gli eticisti  cercano di superare i limiti del loro significato particolare, integrando degli elementi di un’etica universale formale. L’etica applicata si trasforma in una morale minima, procedurale e formale.
Pensiamo che l’etica non può limitarsi al formalismo delle procedure, se almeno si desidera non la semplice coesistenza passiva di indi­vidui, ma una società dotata di senso per tutti e per ciascuno (G.MANZONE 2008). Nell’esperienza morale letta in tutta la sua densità esistenziale, così come si espri­me nelle diverse situazioni contingenti, gli attori sociali sono chiamati  ad andare al di là dei loro obblighi di ruolo e dei  loro codici di condotta. Mentre il professionista si muove con familiarità nella sua tra­dizione scientifica e svolge il suo mestiere, nello stesso tempo affronta interrogativi di profilo più alto, quelli relativi al bene morale e religioso. Tali interrogativi non possono essere valutati come successivi rispetto alla sobria rilevazione dei fatti e all’applicazione delle norme deontologiche.
La pregiudiziale separazione tra fatti e valori, tipica dell’etica applicata, compromette la possibilità di un’adeguata comprensione deile evidenze morali. Essa fa corrispondere al positivismo della sua metodologia casistica lo spiritualismo del discorso sui “valori comuni”. Appare così evidente il formalismo nominalistico di tale discorso (G.ANGELINI 1999). L’appello a principi come l’autonomia, la beneficienza e il non infliggere danni si produce idealisticamente: si suppone l’ovvietà di tali principi, ignorando come soltanto le forme dell’esperienza pratica effettiva possono conferire ad essi evidenza determinata di senso e di valore. La norma non ha univocità se non all’interno di una storia delle istituzioni sociali e dell’ethos obiettivo, ma, alla fine, della storia umana universale. E insieme il giudizio sulle situazioni concrete esige il ricorso a generalizzazioni orientative, e ultimamente il ricorso all’incondizionato, a ciò che vale per sé universalmente.

 Osservazioni conclusive

Ogni singola scienza - si pensi in modo particolare alla giurisprudenza e alla medicina - elabora una sua appropriata casistica per non perdere il contatto col reale e finire in un discorso evanescente. I casi provvedono scenari reali di decisione per esplorare le interpretazioni conflittuali e muovere dalla teoria al giudizio pratico (  J. A. B. CAGLE and M. S. BAUCUS 2006), riconoscendo la complessità e l’ambiguità che i decisori affrontano (B. RICHARDSON 1993).
Incomincia ad emergere nell’etica applicata un consenso sul fatto che la formazione etica dovrebbe non essere basata sulla correttezza di una serie particolare di norme, ma piuttosto sui  fini quali quelli dello sviluppo della coscienza dei problemi etici, del miglioramento delle abilità di ragionamento e di giudizio, stimolando  l’immaginazione morale e l’identificazione, da parte dei soggetti coinvolti, dei propri valori (A. Y and D. A. KOLB 2005; J. WOICESHYN – L. FALKENBERG, 2008 ).
   L’interpretazione adeguata dell’esperienza, esemplificata dal caso, coglie tutto lo spessore delle sue tensioni e ambiguità, che a volte nascondono la qualità buona e promettente dello scenario che chiama il soggetto a decidere e ad investire la sua libertà pur nei condizionamenti dati. In questa lettura e discussione dei casi può e deve essere coinvolta la coscienza stessa del soggetto, perchè possa riconoscere nella situazione o scenario che affronta, uno spazio capace di propiziare la definizione dei suoi obiettivi e  della sua stessa speranza.
I casi costruiti per edificare le abilità di pensiero critico dovrebbero condurre al dialogo  e al dibattito per superarre la privatizzazione del bene morale e dare fondamento alle norme giuste. Anche se si usano i casi per esplicitare il pensiero etico, l’intenzione diventa quella  di sviluppare abitudini di coltivazione morale piuttosto che risolvere dilemmi (R.RAES 1997). Perchè in ogni singola situazione la domanda non verte soltanto sulla correttezza del contenuto per l'adempimento dl una norma giuridica; la domanda si estende al grado di impegno (DEMMER 1988).

GIANNI MANZONE PUL ROMA

ABSTRACT

L’articolo affronta la questione se l’approccio casuistico dell’etica applicata tenda ad una concezione solo funzionale della ricerca morale senza mettere in questione il contesto dato. E propone una visione dei rapporti tra etica e bene morale che mostra come nei “casi” sia in gioco la configurazione della persona come soggetto morale e venga coinvolta la coscienza stessa. Questa può riconoscere nella situazione o scenario che affronta, uno spazio capace di propiziare la definizione dei suoi obiettivi e  della sua stessa speranza.
 Tale visione è resa possibile da una modalità d'intendere la conoscenza del particolare, che è parimenti frutto di un'esperienza vissuta ma che  ciononostante  non esclude e in qualche misura richiede di attingere in modo non estrinseco a un sapere universale. Si tratta di una sapienza pratica di tipo aristotelico capace di bilanciare la complessità delle situazioni mantenendo coerente l’ intenzione del bene morale.

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